La celebrazione domenicale dell’Eucaristia è al centro della vita della Chiesa e del cristiano. Andiamo a Messa perché sentiamo forte il bisogno di incontrare il Signore: percepiamo la sua chiamata delicata, vogliamo presentarci a lui sapendo che anche lui vuole vederci; vogliamo ascoltare la sua Parola, nutrirci alla sua mensa, ed essere popolo di Dio nel mondo.
Nel Libro dell’Esodo (20,8), tra le “Parole di libertà” che Dio affida a quello che sarà il suo popolo, c’è il seguente impegno: “Ricordati del giorno del sabato per santificarlo”. Il sabato, come giorno di festa, è già stabilito da Dio. Compito di ogni singolo ebreo è “santificarlo”. Cioè viverlo in maniera unica, nell’incontro con il Signore e con i fratelli.
Per il cristiano, il giorno di festa è la domenica: giorno in cui celebriamo la risurrezione del Signore e la nostra liberazione, la nostra salvezza dal male. Ed essendo la domenica, nel computo antico dei giorni, il primo della settimana, giorno che nella Scrittura è il giorno della creazione del mondo, per questo la primitiva comunità cristiana la considerava come il giorno in cui ha avuto inizio il mondo nuovo, la nuova creazione. Raccogliendosi intorno alla mensa eucaristica, la comunità si modellava come nuovo popolo di Dio, sperimentando la presenza viva del Signore.
È per questo che il vescovo sant’Ignazio di Antiochia, vissuto nel primo secolo, qualificava i cristiani come persone “viventi secondo la domenica”. Ed è ciò che testimoniarono i martiri di Abitene (oggi Medjez el-Bab, nell’odierna Tunisia), nel 304 dopo Cristo, durante la persecuzione di Diocleziano: “Senza la domenica non possiamo vivere”. A dichiararlo fu uno dei martiri, di nome Emerito, spiegando il motivo del loro radunarsi di domenica, nonostante il divieto imperiale di celebrare l’eucaristia. I 49 martiri di Abitene hanno affrontato coraggiosamente la morte, pur di non rinnegare la loro fede nel Cristo risorto e non venir meno all’incontro con Lui nella celebrazione eucaristica domenicale. Perché? Certamente non per obbedire a un “precetto”, visto che solo in seguito la Chiesa stabilirà tale precetto. Perché allora? Perché i cristiani vedevano nella domenica e nell’Eucaristia celebrata in questo giorno l’elemento costitutivo della loro stessa identità. Che domenica sarebbe, per un cristiano, quella in cui manca l’incontro con il Signore?
San Giovanni Crisostomo (IV secolo) diceva: “Tu non puoi pregare in casa come in chiesa, dove c’è il popolo di Dio raccolto, dove il grido è elevato a Dio con un cuore solo… Là c’è qualcosa di più. L’unisono degli spiriti, l’accordo delle anime, il legame della carità, le preghiere dei sacerdoti”.
Partecipare alla Celebrazione domenicale, cibarsi del Pane eucaristico e sperimentare la comunione con il Signore e con i fratelli sono un bisogno per il cristiano, una gioia, l’energia necessaria per il cammino di ogni giorno.
Ma il mondo in cui ci troviamo vive così la domenica? Purtroppo viviamo in una realtà segnato dal consumismo, dall’indifferenza religiosa, da un secolarismo chiuso alla trascendenza. Il senso cristiano della domenica illuminata dall’Eucaristia è come smarrito. Oggi, addirittura, le statistiche ci dicono che attualmente meno del 20% delle persone vanno regolarmente a Messa la domenica. Tanto più che molti dicono che non serve andare a Messa la domenica, perché l’importante è vivere bene, amare il prossimo. Come aveva affermato Gesù: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Giovanni 13,35). Non si comprende, però, che è la celebrazione eucaristica a renderci testimoni credibili, capaci di offrire nel mondo un seme di pace, di gioia e di speranza.
Ma qui si insinua il discorso del “precetto” da assolvere, da adempiere. L’incontro con il Risorto all’insegna dell’amore e quindi della gratuità si scontra con la preoccupazione del precetto. Troppo spesso si partecipa alla celebrazione eucaristica per obbedire al precetto, una tassa da pagare per non incorrere in una punizione nell’aldilà. E in tanti luoghi si insegna ancora ai bambini il precetto di partecipare alla messa domenicale. E si dimentica di celebrare la festa. Se partecipiamo all’eucaristia domenicale per obbedire a un precetto, c’è da domandarsi se si è ancora cristiani. I cristiani non vivono la domenica come precettati, obbligati a rispettare una ordinanza di legge, ma come convocati.
Per fortuna, oggi, l’arma del precetto ha sempre meno presa sulle persone. Oggi, nel vivere quotidiano si cercano esperienze autentiche e vere.
La celebrazione dell’Eucarestia ha senso solo se è un atto d’amore. Dio si rallegra di vedere il suo popolo riunito. Lui desidera vedere il nostro volto come noi cerchiamo il Suo. Lì facciamo dunque un’esperienza del dare e ricevere amore. E l’amore è gratuito, non risponde a un obbligo.
Infatti, la celebrazione domenicale, “prima di essere una questione di precetto, è una questione d’identità”. La domenica è la carta di identità della Chiesa, dei cristiani. “Il cristiano ha bisogno della domenica. Dal precetto si può anche evadere, dal bisogno no” (Nota pastorale della CEI, Il Giorno del Signore, 1984, 8).
Inoltre, “Se la domenica è detta giustamente Giorno del Signore (Dies Domini), ciò non è innanzitutto perché essa è il giorno che l’uomo dedica al culto del suo Signore, ma perché essa è il dono prezioso che Dio fa al suo popolo: Questo è il giorno fatto dal Signore: rallegriamoci ed esultiamo. – Salmo 117,24” (Nota pastorale della CEI, Il Giorno del Signore, 1984, 2).
“Partecipare alla Celebrazione domenicale, cibarsi del Pane eucaristico e sperimentare la comunione dei fratelli e delle sorelle in Cristo è un bisogno per il cristiano, è una gioia” (Benedetto XVI, Omelia alla conclusione del XXIV Congresso Eucaristico Nazionale, 29 maggio 2005).
Non siamo cristiani perché abbiamo paura di Dio. Siamo cristiani perché figli, perché abbiamo incontrato l’amore del Padre. Partecipiamo all’eucaristia domenicale non perché ci è stato comandato di farlo, ma perché siamo contenti di esserci. Non per avere un premio, ma è la nostra gioia e siamo contenti di farlo.
Rabi‘a al-Adawiyya (Rabi’a al Basri), mistica islamica dell’VIII secolo, un giorno viene vista mentre esce dalla sua casa con in una mano una torcia accesa, nell’altra un’anfora piena d’acqua. Le chiedono: “Rabi‘a, dove vai? E perché hai il fuoco in una mano e l’acqua nell’altra?”. E lei risponde: “Vado a bruciare il paradiso e a spegnere l’inferno, perché nessuno ami Dio per paura dell’inferno o per conquistare il merito del paradiso”. L’insegnamento di Rabi‘a è la gratuità del vero figlio, che non fa le cose per paura dell’inferno, del castigo, o per il desiderio di conquistare un merito. Fa le cose per amore.