«Nella misura in cui, abbandonando la fiducia in noi stessi, stiamo alla scuola di Gesù attraverso la sua Parola e l’Eucaristia, permettiamo che lui stesso prenda possesso della nostra vita, fino a poter dire: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Galati 2,20)». Don Alberione si rivolge alla Parola e all’Eucaristia: ne fa alimento quotidiano fino a incarnarli. Cosciente della missione ricevuta egli trasmette questo dono ai suoi figli e figlie affinché lo mettano a servizio e a beneficio di tutti così come ha fatto Paolo: «Mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare l’utile mio ma quello di molti, perché giungano alla salvezza» (1 Corinzi 10,32).
Nella sua missione nulla mise prima del Vangelo. La sua vita, i suoi interessi, il suo futuro sono stati segnati dall’ansia di portare a tutti il Vangelo di Gesù Cristo. Ha abbandonato padre, madre, casa, fratelli, parenti per iniziare una nuova famiglia ben più numerosa, unita non nel vincolo di sangue, ma dall’ideale dell’evangelizzazione.
Non è stato semplice avviare questa grande famiglia. Vi erano giorni in cui don Alberione si isolava da tutto e da tutti, per un più intimo contatto con Dio. Passava così due o tre giorni di seguito, molte volte senza mangiare o alimentandosi pochissimo. In tali giorni rifletteva su ciò che progettava di fare e, sottoponendo tutto all’approvazione del Signore, si chiedeva: «Questo è necessario? Ho retta intenzione? Farei questo se stessi per morire?».
C’è un episodio degli inizi della Famiglia Paolina che ci fa comprendere questo suo stato d’animo. Un episodio che ha segnato la vita di don Alberione e quella dell’intera Famiglia. Provato nella salute alquanto precaria e compromessa (i medici stessi gli davano pochi mesi di vita), egli si domandava: sarà valsa la pena? Era veramente quella la volontà del Signore?
Egli stesso, parlando di sé in terza persona, ricorderà nel periodo della malattia un evento straordinario della grazia di Dio. «In momenti di particolari difficoltà, riesaminando tutta la sua condotta, se vi fossero impedimenti all’azione della grazia da parte sua, parve che il Divin Maestro volesse rassicurare l’Istituto incominciato da pochi anni. Nel sogno avuto successivamente, gli parve di avere una risposta. Gesù Maestro infatti diceva: “Non temete, Io sono con voi. Di qui voglio illuminare. Abbiate il dolore dei peccati”. Il “di qui” proveniva dal Tabernacolo, e con forza, così da far comprendere che da Lui Maestro si deve avere tutta la luce».
«Nolite timere. Ego vobiscum sum» «Non temete. Io sono con voi». Il Signore si presenta con un invito alla fiducia in lui. Ritroviamo queste due frasi varie volte nella Bibbia. Dette da Dio. E nessuno aveva lasciato a metà la propria missione. Così era avvenuto per Abramo, Mosè, Isaia, Geremia, Maria di Nazareth, Pietro, Paolo… Ciò che aveva già fatto o che avrebbe fatto don Alberione e, in seguito, i Paolini, era nella linea della missione dei profeti, di Maria, degli Apostoli.
Interpretando il suo sogno, don Alberione afferma che Gesù garantiva il superamento di ogni ostacolo, ma chiedeva: «assicuratevi di lasciarmi stare con voi. Io sono con voi, cioè con la vostra Famiglia, che ho voluta, che è mia, che alimento, di cui faccio parte, come capo. Non tentennate! Se anche sono molte le difficoltà, ma che io possa stare sempre con voi!».
Non dobbiamo però dimenticare che la promessa di Gesù «Io sono con voi tutti i giorni» (Matteo 28,20) è legata a un imperativo, contenuto nel versetto che precede: «andando fate discepole tutte le genti». Ci viene indicato un movimento, uno stile di vita. Gesù, stando con noi, ci mette in cammino per portare a tutti il Vangelo di salvezza.
«Ab hinc illuminare volo». «Di qui voglio illuminare». Don Alberione vede l’Eucaristia come luce, alimento, forza, garanzia, vita di tutto il cammino spirituale e apostolico della Famiglia Paolina. Egli per primo intese queste parole come «un invito a prendere tutto da Gesù nel Tabernacolo». Ricorderà sempre: «Siamo nati dall’Eucaristia!». Don Alberione evidenzia che «da Gesù Maestro tutta la luce si ha da ricevere». Egli offre il senso ai nostri passi, ai nostri progetti.
Interpretando il suo sogno, don Alberione spiega che Gesù insiste nel dirci: «Io sono la luce vostra e mi servirò di voi per illuminare. Vi do questa missione e voglio che voi la compiate». Continuando il suo racconto, ricorda: «La luce in cui era avvolto il Divin Maestro, la forza di voce sul voglio e da qui e l’indicazione prolungata con la mano sul Tabernacolo, furono così intesi: un invito a tutto prendere da lui, maestro divino abitante nel Tabernacolo; che questa è la sua volontà; che dalla allora minacciata Famiglia doveva partire gran luce… Ognuno pensi che è trasmettitore di luce, altoparlante di Gesù, segretario degli evangelisti, di san Paolo, di san Pietro; che la penna, con la penna del calamaio della stampatrice, fanno una sola missione…».
«Poenitens cor tenete». Viene abitualmente tradotto con «Abbiate il dolore dei peccati». È un invito alla conversione del cuore. Riconoscersi deboli in un mondo che ambisce ad essere potente. Riconoscere i peccati, i difetti, le insufficienze. Un abituale impegno a confrontare la nostra coscienza con la Parola di Dio. Distinguere nella nostra vocazione ciò che è nostro da ciò che è di Dio. Ed essere pronti a cambiare.
«Abbiate – quindi – un cuore penitente». Penitenza, come l’equivalente greco metanoia, indica cambiamento, che si contrappone al peccato come amartìa, in quanto “sbaglio di bersaglio, sbaglio di direzione”; il vocabolo latino penitus, da cui deriva il termine italiano, sottolinea la profondità di questo cambiamento, indica qualcosa fatta in profondità. La lingua ebraica, parlando della conversione, ricorre al verbo shub, “ritornare”: è il volgersi nuovamente a Dio, alla sua continua “novità”, lasciando da parte il proprio io.
Don Alberione è convinto delle necessità di avere un costante cambiamento di mentalità, per assumere progressivamente in noi il progetto stesso di Dio. E vedere la tipografia, lo studio radio o televisivo, come pulpito, come chiesa.
L’espressione latina ci suggerisce un’altra sottolineatura. Abbiate un cuore penitente, un cuore cioè che porta dentro la pena. In questo ci è d’esempio il popolo di Israele: «Ricordati che sei stato schiavo in Egitto» (Deuteronomio 5,15; 16,12; 24,28; cfr. Esodo 20,2). È utile fare memoria della “pena”, cioè della schiavitù subita, di tutto il male, dell’angoscia, e del grido che saliva dal profondo del cuore a Dio, e avere sempre viva la liberazione prodigiosa offerta da Dio, in modo da evitare di ricadere nella schiavitù o essere imprigionati nel condizionamento. Ma non bisogna dimenticare che quella “pena” era dovuta alla chiusura del popolo alla “chiamata” di Dio, e al suo orgoglio di ergersi come giudice al posto di Dio. Fare memoria della “pena” è allora prendere atto della morte sempre in agguato e preferire la vita che Dio ci assicura, oggi come ieri. E come per il popolo di Israele il vero nemico era soprattutto il proprio peccato e il proprio io (non gli altri popoli), così per il Paolino il vero nemico è il peccato, non i concorrenti o le difficoltà o la scarsità economica.
Don Alberione ha lasciato in eredità ai Paolini queste tre frasi, scritte in tutte le loro cappelle e chiese, e nei luoghi di apostolato, come «programma pratico di vita e di luce».
Con queste garanzie, vale la pena portare avanti la vocazione paolina. Dio trova interessante farsi carta scritta, immagine, suono. Per raggiungere tutti. Essere in mezzo a noi ancora oggi. Questo il senso dell’apostolato vissuto da don Alberione e dai Paolini.
COME SONO NATE LE TRE FRASI PAOLINE:
NON TEMETE – IO SONO CON VOI – ABBIATE IL DOLORE DEI PECCATI – DI QUI VOGLIO ILLUMINARE
Entrando una mattina in Cappella per le solite pratiche di pietà, eccoci davanti una sorpresa: vediamo due scritte color oro su sfondo nero con una cornice molto semplice attorno. Il testo tutti lo conosciamo: Non temete, io sono con voi. Di qui voglio illuminare. Qualche tempo dopo: Abbiate il dolore dei peccati.
La sorpresa fu quella di vedere quelle due tavolette delle quali il Teologo (don Alberione, così lo chiamavano i primi tempi i suoi ragazzi) non ne aveva mai parlato. Da quel giorno le meditazioni furono frequenti sul contenuto di quanto esse racchiudevano. Veramente ben meditate, contengono la miniera di tutte le ricchezze di Dio.
A questo proposito mi meravigliò un fatto capitato con don Costa Desiderio (tra i primi discepoli di don Alberione). Di ritorno dalla difesa della sua tesi di diritto a Bergamo, fu accompagnato da un suo condiscepolo con il quale celebrò la Santa Messa nella nostra Cappellina, cosa veramente rara. Iniziò la meditazione, parlandoci della sua meraviglia nel leggere le due iscrizioni e ci disse: “Non possono venire da uomini, sono parole che vengono direttamente da Dio”. Questa affermazione mi colpì a tal punto che ancora oggi è spesso oggetto della mia riflessione. E disse ancora: “Sono parole del Vangelo, ma poste in quel modo non posso persuadermi che siano il frutto di un semplice intuito umano”. Ogni volta che rileggo quelle frasi che brillano sempre al fianco del tabernacolo, mi ritorna in mente questo episodio. Meditarle e viverle nel vero senso col quale Gesù ce l’ha dettate.
Si parla spesso delle due prime frasi e poco della terza. Questa è stata posta sotto l’altare, qualche mese dopo: Abbiate il dolore dei peccati. Il Primo Maestro presentandola ci disse, che il peccato è l’impedimento a tutte le grazie: non lo si commetta e se commesso non si tardi a domandare perdono a colui dal quale tutto si aspetta. La lotta sostenuta dal Teologo contro il peccato fu sempre terribile. Attendendo una grazia e questa tardando ad arrivare, segno che c’è un impedimento prima della celebrazione, io e don Giaccardo siamo a vostra disposizione e chi può essere colpevole, lo scongiuro, domandi al Signore perdono. Solamente dopo di celebra la Santa Messa.
(ricordo di don Paolino Gilli)